Per l'ex presidente della Consulta la riforma del Senato sommata
all'Italicum "realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica
a favore delle tecnocrazie"
PROFESSOR Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe, come sostiene il fronte del "no" alla
riforma che lei guida insieme a altri dieci ex presidenti della
Consulta, e a molti costituzionalisti? Non lo avete mai sostenuto
nemmeno davanti agli abusi di potere di Berlusconi e alle sue leggi ad
personam: cos'è successo?
"Nel "fronte del no" convergono preoccupazioni diverse, come è naturale.
Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto.
L'atmosfera è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non
l'allarme. Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e
allontanandosi dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?".
Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere?
"Non penso a una "Spectre", per intenderci. Vedo un progressivo
svuotamento della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per
ora le forme della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di
post-democrazia e, se subentra l'autoritarismo, di "democratura".
Ripeto: non c'è da preoccuparsi?".
Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato?
"Il Senato è un dettaglio, o un'esca. Meglio se lo avessero abolito del
tutto. È all'insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti
denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e
verticistici e, dall'altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che
significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare
di vedere il sogno di ogni oligarchia: l'umiliazione della politica a
favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei
Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che
viviamo in un continuo presente. Il motto è "non ci sono alternative", e
così il pensiero è messo fuori gioco".
Lei ha avuto responsabilità istituzionali, è stato presidente
della Consulta: non ha mai sollevato questo allarme coi vertici dello
Stato?
"Con "i vertici" ho poche occasioni d'incontro. Ma ne ricordo uno, al
Quirinale col presidente Napolitano. Gli parlai dell'alternativa che si
prospetta sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il
malessere aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o
la ricerca di nuove strade o l'insistenza su quelle vecchie che pesano
sui gruppi sociali più deboli".
Ad esempio?
"Pensi al modo abituale di tirare avanti esponendosi ai creditori. Il
debitore finisce per cadere totalmente nelle loro mani. Nel diritto
antico potevi finire schiavo. Oggi puoi essere spogliato. Si canta
vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e
non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c'è l'esempio
della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono
chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Partenone".
Io sono più preoccupato per questi problemi che per la riforma
del Senato: il welfare state, quella che abbiamo chiamato l'economia
sociale di mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà
europea, non le pare?
"Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel
nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si
capirebbe, di fronte all'enormità dei problemi che abbiamo, tanto
accanimento nei confronti del povero Senato. Il "sì" spianerebbe una
strada; il "no" farebbe resistenza".
Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia?
"Sì. La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo
pure alla distruzione della società, condannando i più deboli
all'impotenza e all'irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso
democratico, franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami
tutti a uno sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie
possibilità, mobilitando le energie civili del Paese e recuperando
sovranità".
Anche lei pensa che l'Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi?
"Per nulla. Ma l'Europa è una scelta, non un guinzaglio. L'articolo 11
della Costituzione prevede la possibilità che l'Italia limiti la sua
sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò
serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che
non è un'abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale
con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e
paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L'Europa dovrebbe
significare più, non meno democrazia".
Sta dicendo che l'Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità?
"È l'opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un
recupero dello spirito di Ventotene, un "plebiscito d'ogni giorno" dei
popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la
politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili
alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo
tardi".
Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza?
"C'è un pensiero unico in campo, tra l'altro responsabile della crisi.
Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica,
dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con
interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico.
L'implosione è sempre in agguato".
Professore, non è troppo pessimista?
"Non parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo
delle società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta
malissimo, illeggibile, talora incomprensibile".
Sta facendo un problema di forma?
"Di sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto
l'obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due
difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità".
Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso?
"Certo. Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto.
Non le sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e
ingenua? In quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis! ".
Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all'eterna tentazione del consociativismo?
"A patto di non considerare la vittoria come un'unzione sacra che
permette di insultare chi non è d'accordo: sindacati, professori,
magistrati, pubblici amministratori, con l'idea che siano avversari da
spegnere. Un governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché,
appena le cose incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un
conto salato".
Ma nel Paese dell'eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo?
"Perché "diretto" sarebbe "non democristiano"? A me pare che proprio
l'idea del vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da
noi: il timore d'essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c'è
stata e c'è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E
questa non è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura
preventiva?".
Lei teme l'abuso del vincitore?
"Si è parlato della Costituzione vigente come il frutto ormai superato
della "paura del tiranno". Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non
c'è più. Ma il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende
avvertiti di altri, nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che
saranno sottoposte a referendum varranno per il futuro e non sappiamo
chi potrà avvalersene".
Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell'esecutivo: è così?
"Nessuno può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato
della "velocità" nella politica e dell'elezione come investitura
trasformerà chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo
del governo è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è
schiacciata sotto il ricatto permanente del voto anticipato".
Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno?
"Semplice: perché c'erano i partiti e una legge elettorale proporzionale
con le preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito
di sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge
elettorale vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi".
Lei ritiene Renzi capace di tutto questo?
"Non voglio personalizzare. Tra l'altro oggi c'è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano".
Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto?
"Lo voglio anch'io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è
positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari,
perché saremmo all'antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre
bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese,
come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente".
Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde?
"L'idea di Ingrao era la "centralità del Parlamento". Voleva una Camera
sola per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli
entrambi".
E' questa la vera ragione del suo "no"?
"E' fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è
ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di
materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano
risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare
sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non
invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si
capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono "designati"
dagli elettori non possono essere "eletti" dai Consigli regionali. Sa
cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto
costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei
studenti non una materia, ma un guazzabuglio".
Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede?
"Questo è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che
governi. Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni
polmoni".
Dal governo non può venire niente di buono?
"Perché? Sono buone le unioni civili, l'autonomia dai vescovi, la
prudenza sulla Libia, il rifiuto della politica del "a casa nostra"
verso i migranti. Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una
discussione sulla Costituzione si trasformi in un plebiscito sul
governo. La Costituzione non è a favore né contro qualcuno, non si vince
in questa materia e non si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta,
tutti ci giochiamo qualcosa e forse molto".
Professore, non l'ho mai sentita richiamare i grillini, come fa
con il Pd, ad una responsabilità comune sul destino del sistema: come
mai?
"Potrei dirle che l'antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è
giunta l'ora che i Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e
accettino la logica parlamentare. La vera arte politica sta nel creare
le condizioni dello stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle
proprie ragioni, ma cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire
questo non significa nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona
politica".
A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi?
"Anche noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro
diventeranno vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che
polemizzava coi vecchi?".
Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque?
"C'è traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre
ragione, i vecchi devono tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede:
così si smarrisce il sentimento del passaggio generazionale, la
trasmissione dell'esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di
un presunto Anno Zero. Certo, l'eccesso di tradizione spegne. Ma
tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi
nell'oggi e improvvisa".
Fonte
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