Le parole “golpe” e “colpo di Stato”, unite a quel “mi dia la grazia”, pronunciate l’altro ieri dal condannato in via definitiva Silvio Berlusconi non sono proprio piaciute al capo dello Stato.
Berlusconi è stato condannato per la frode fiscale da 7,3 milioni di euro commessa nel 2002 e nel 2003 attraverso irregolarità nella compravendita dei diritti tv Mediaset.
Con questa accusa Silvio Berlusconi lo scorso agosto è stato condannato irrevocabilmente a quattro anni di carcere, tre dei quali coperti da indulto, e poco più di un mese fa si è visto applicato due anni di interdizione dai pubblici uffici dalla Corte d’appello di Milano.
E poiché la pena al “netto” da scontare è di un solo anno, l’ex premier, anche per aver superato i 70 anni, non finirà in carcere. Invece per lui ci saranno, probabilmente, poco più di dieci mesi di affidamento in prova ai servizi sociali.
“Gravissime le sue parole non ci sono le condizioni” per un provvedimento di clemenza come la grazia e per altro “Silvio Berlusconi moderi le sue parole ed eviti giudizi e propositi di estrema gravità, privi di ogni misura nei contenuti e nei toni”.
Giorgio Napolitano tramite un comunicato stampa dal Quirinale espone la sua posizione, riconducendo all’ordine l’ex premier e sgombrando ancora una volta il campo da congetture e speculazioni su un suo intervento a favore del Cavaliere che si discosti da quanto sancito ufficialmente già lo scorso 13 agosto 2013.
Immediate le reazioni dei fedelissimi di Berlusconi. Ha aperto il fuoco sulle dichiarazioni Maurizio Gasparri che si dice “sbigottito” dalla posizione del Quirinale. Segue Renato Brunetta che definisce Giorgio Napolitano “uomo di parte” rappresentando la “sconfitta” di tutta Forza Italia per le parole del presidente.
E addirittura i fedelissimi del padrone di Arcore ricordano al Colle gli articoli 17 e 21 della Costituzione, sulla libertà di manifestazione e di espressione.
Niente grazia, quindi. E non poteva essere diversamente, dal punto di vista del Colle, visto che Berlusconi non solo non ha seguito le indicazioni suggerite dal Quirinale sin dallo scorso agosto, ma se ne è allontanato sempre più fino ad arrivare ad citare un “colpo di Stato” nei suoi confronti.
Così Angelino Alfano marca largo il suo vecchio leader e ormai, con le decisioni prese, divide Forza Italia dal Nuovo Centrodestra, annunciando che non parteciperà giorno 27 novembre alla manifestazione organizzata da Silvio Berlusconi contro la sua decadenza da senatore.
“Abbiamo fatto una scelta differente guardando al futuro e all’Italia”, scandisce il vicepremier, ospite di Massimo Giletti a L’Arena. “Abbiamo fatto un movimento politico che guarda al futuro e quindi non siamo stati coinvolti”, sottolinea. Parole che scatenano l’ira di quanti sono rimasti al fianco del Presidente di Forza Italia, che accusano l’ex segretario di pensare solo ai seggi.
L’ex delfino di Berlusconi si schiera a fianco del Cavaliere solo nel criticare l’applicazione retroattiva della legge Severino e nel sostenere che l’ex premier “meriterebbe la grazia”. Si tiene però alla larga dalle polemiche con il Quirinale, precisando di non voler entrare nel merito delle procedure su come debba essere concesso il provvedimento di clemenza. Ben più dirimente appare la diversità di vedute sulle conseguenze che il voto del 27 dovrebbe avere sul governo. “Noi riteniamo che a seguito della decadenza non si possa lasciare il Paese di fronte a una crisi al buio, sfasciando tutto”, afferma Alfano.
Mentre un “ piccolo passo avanti” della politica italiana si sta facendo con il governo Letta che sta puntando sulla riduzione del debito con la dismissione parziale di otto società pubbliche. Tuttavia sono ancora molti i nodi da smontare nel piano di dismissioni da dodici miliardi annunciato dal governo. Per alcune operazioni è chiara la modalità, ma sono lunghi i tempi, per altre si deve ancora decidere, tenendo conto di diverse esigenze. Saranno interessate a vario titolo: Eni, Stm e Enav per le partecipazioni dirette e Sace, Fincantieri, Cassa depositi e prestiti di Reti, Tag (Trans Austria Gasleitung gestisce il trasporto di gas nel tratto austriaco del gasdotto Russia-Italia) e Grandi Stazioni (Fs) per quelle indirette.
Una mossa che vale fra i dieci e i dodici miliardi di euro fra le quali appare la cessione del 3% dell’Eni, che da sola porterà due miliardi nelle casse dello Stato, il cui controllo, chiarisce il premier Enrico Letta, rimarrà ciononostante ben saldo nelle mani dello Stato.
L’operazione più chiara è con assurdità quella che richiede tempi più lunghi: per procedere alla cessione di una tranche Eni del 3% bisognerà convocare un consiglio di amministrazione che deliberi modalità, prezzo e durata del buyback o meglio il riacquisto di azioni proprie per azzerare il valore delle azioni ricomprate. Solo dopo il novembre 2014 la quota potrà andare sul mercato.
L'Eni è il Core business nel petrolio e nel gas: è la prima azienda italiana per capitalizzazione a Piazza Affari, 66,4 miliardi a fine 2012. Un gigante dell’Energia con un fatturato oltre i centoventisette miliardi, presente in novanta Paesi, con 78mila dipendenti.
L’annuncio del presidente del Consiglio, più che a imprimere sul debito italiano da oltre duemila miliardi di euro, si propone davanti all’Europa in una posizione di maggiore fermezza per cercare di richiedere la clausola sulla flessibilità degli investimenti respinta nei giorni scorsi dall’Unione Europea.
Di Giacomo Palumbo
@palgiac
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