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lunedì 28 febbraio 2011

Intro di democrazia contemporanea


"Per fortuna lo Stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell’uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile, ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un istituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d’una classe privilegiata verso un’ideal forma di esistenza. Su l’uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza, e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo difficile, in vero, ricondurre il gregge all’obbedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli." (G. D’Annunzio, Le vergini delle rocce, 1895). "Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh, perché credi che soffra io? Io soffro per questa tirannia mascherata da libertà" (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, 19). Da un secolo che si apre con tali auspici, espressi da due dei massimi letterari italiani di inizio secolo, la democrazia non si poteva certo aspettare un trattamento molto favorevole. Infatti l’avvento dei totalitarismi, di destra o di sinistra poco importa, due conflitti mondiali e l’ambiguità della guerra fredda sono stati una costante minaccia per gli ideali e i regimi democratici. Considerando l’impossibilità di fornire una lettura articolata e completa di un fenomeno democratico che investe ormai, sotto forma di aspettativa o di realtà, l’intero pianeta, ci si è concentrati solo su alcuni processi democratici sottolineando limiti e spunti innovativi. In particolare si è tenuto conto degli sviluppi più recenti, quali le problematiche dell’America Latina e dell’integrazione europea, e di fenomeni legati al grande tema del totalitarismo e della dittatura quali la crisi della democrazia parlamentare nella prima metà del secolo, la difficile transizione dal franchismo alla monarchia parlamentare in Spagna e i rapporti, talvolta problematici, con l’ideologia socialista.

Accanto all’analisi storica, si è tentato di presentare anche le articolazioni più significative del dibattito contemporaneo relativo agli aspetti sia tecnici che ideali del sistema democratico e alla sua effettiva validità dopo che proprio il Novecento ne ha spesso rivelato la debolezza: le critiche alla democrazia, i criteri del processo democratico, la costante dialettica tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Infine, nel tentativo di porre le basi per un dibattito sulla possibile realizzazione della democrazia nel futuro, ci si è soffermati sui nuovi interrogativi posti dalla diffusione dei mezzi telematici e sulla mancata realizzazione, da parte delle democrazie contemporanee, di numerose promesse teoriche.

giovedì 24 febbraio 2011

La democrazia rappresentativa


Mill, come Tocqueville, teme la tirannia della maggioranza e, ponendosi il classico problema della miglior forma di governo, risponde che questa è la democrazia rappresentativa che costituisce la naturale prosecuzione di uno stato che voglia garantire ai propri cittadini il massimo della libertà. La visione di Mill chiarisce il nesso indissolubile tra democrazia e liberalismo, infatti l’affermazione secondo cui il perfetto libero governo è quello in cui tutti partecipano al beneficio della libertà conduce Mill a divenire promotore dell’estensione del suffragio sulla scia del radicalismo benthamiano da cui era natala riforma elettorale inglese del 1832. Il rimedio alla tirannia della maggioranza consiste nel fatto che la formazione della maggioranza avviene attraverso la partecipazione alle elezioni anche delle classi popolari. La partecipazione ha grande valore educativo dal momento che nella discussione politica l’operaio riesce a comprendere il nesso tra eventi lontani e il suo personale interesse, e a stabilire rapporti con cittadini diversi. Il suffragio universale rimane anche nella teorizzazione milliana un ideale limite: sono esclusi coloro che vivono di elemosine, analfabeti, bancarottieri, debitori fraudolenti, mentre Mill si dichiara favorevole al voto femminile proprio invertendo l’uso del tradizionale pregiudizio antifemminista della debolezza delle donne; se infatti le donne sono più deboli dipendono maggiormente dalla società e dalla legge che dunque devono essere in grado di poter condizionare.

Il mutamento del sistema elettorale

Il secondo rimedio alla tirannia della maggioranza consiste per Mill nel passaggio da un sistema maggioritario a uno proporzionale che assicura una adeguata rappresentanza anche alle minoranze: una minoranza agguerrita può infatti porre un efficace freno all'abuso di potere da parte della maggioranza; nell'affermare ciò Mill riprende evidentemente in luce positiva il motivo dell’antagonismo tipico della tradizione liberale. Sostenendo che laddove la lotta è stata sopita o soffocata non c’è stato progresso, ma stagnazione e decadenza. La democrazia perfetta è tuttavia ancora lontana anche nel pensiero di Mill che, quasi ad attenuare l’effetto del suffragio allargato, propone il progetto del voto plurimo, che ebbe però scarsa fortuna.

Liberalismo e democrazia nell'Ottocento italiano

Nonostante il tentativo di conciliazione operato da Mill liberali e democratici continuarono a dar vita a schieramenti politici diversi e spesso contrapposti: lo sviluppo della dottrina liberale è legato alla critica economica delle società autocratiche, lo sviluppo di quella democratica è connesso invece a una critica politico-istituzionale. Prima della formazione dei partiti socialisti i parlamentari si dividevano in democratici e liberali la cui convergenza graduale fu dovuta anche alla nascita dei partiti socialisti in un primo tempo e al crearsi di regimi né liberali né democratici, ovvero degli stati totalitari, in un secondo tempo.

Tuttavia nel secolo scorso la contrapposizione in Italia è molto netta soprattutto per la presenza di un agitatore politico come Mazzini che interpretava la scuola liberale come quella che aveva respinto la libertà come fine ultimo per accontentarsi di essa come mezzo per i fini privati. Nella democrazia, invece, l’ideale egualitario portava a una libertà non solo formale, ma reale. Uno stato che consideri la libertà come mezzo può essere ateo o neutrale, ma non può esserlo lo stato di tutti che deve proporsi lo scopo di educare la nazione.
A Mazzini si contrappone naturalmente Cavour che fa di Constant e Bentham i cardini del proprio pensiero politico. L’utilitarismo è invece avversato da Mazzini che ne fa il responsabile del materialismo delle dottrine socialiste contrapponendovi l’idea del dovere e del sacrificio per la causa dell’umanità. Cavour condivide inoltre l’apprensione di Tocqueville per la tirannia della maggioranza e si fa promotore del giusto mezzo tra reazione e rivoluzione, mentre Mazzini è fautore della rivoluzione nazionale; Cavour è convinto liberista, ammiratore di Smith e Ricardo, Mazzini avversa il libero scambismo propugnando uno stato educatore contro la concezione liberale dello stato come male necessario e quindi da limitare solo a compiti di polizia. Cavour è infine convinto che il progresso economico coincida con quello spirituale e morale mentre Mazzini afferma che il progresso spirituale è condizione di quello materiale: con la dottrina del benessere di stampo utilitaristico si formano individui egoisti e materialisti e l’unico principio educatore non può dunque che essere il dovere.

Suffragio universale e libertà


Uguaglianza davanti alla legge e nei diritti, connesse al sorgere dello stato liberale, non hanno a che fare con l’egualitarismo democratico che si estende sino a perseguire l’ideale di un certo eguagliamento economico, estraneo al pensiero liberale. Rispetto dunque ai vari significati di uguaglianza le due tradizioni sono destinate a non incontrarsi. La democrazia si può considerare come naturale sviluppo dello stato liberale soltanto se presa dal lato della sua formula politica caratterizzata dal riconoscimento della sovranità popolare, ovvero dalla massima estensione dei diritti politici fino al limite ultimo del suffragio universale. Quest’ultimo è stato criticato da molti scrittori liberali pur non essendo in linea di principio contrario né allo stato minimo né allo stato di diritto; vi sono al contrario buone ragioni per credere che oggi il metodo democratico sia necessario per la salvaguardia dei diritti fondamentali della persona e che d’altro canto la salvaguardia di suddetti diritti sia necessaria per il corretto funzionamento del metodo democratico. Infatti la maggiore garanzia di protezione dei diritti dal tentativo di limitazione da parte dei governanti sta nella possibilità che i cittadini hanno di difenderli e il migliore, anche se non per questo infallibile, rimedio contro ogni abuso di potere è la partecipazione del maggior numero di cittadini alla formazione delle leggi. Sotto questo aspetto i diritti politici sono un completamento naturale dei diritti di libertà e civili, garantendo quelli la salvaguardia di questi che, in uno stato non fondato sulla sovranità popolare, sono difesi unicamente dal diritto naturale di resistenza all’oppressione. D’altra parte la partecipazione al voto può essere considerata come corretto e efficace esercizio di un potere politico soltanto se si svolge liberamente e ciò avviene solo se il votante gode della libertà di opinione, di associazione, di riunione, di stampa, che costituiscono l’essenza dello stato liberale e che fungono da presupposti necessari affinchè la partecipazione sia reale. Oggi soltanto gli stati nati da rivoluzioni liberali sono democratici e soltanto gli stati democratici proteggono i diritti dell’uomo, a testimonianza del progressivo intrecciarsi di ideali liberali e metodi democratici.

L’individualismo, base comune e terreno di scontro

Il nesso reciproco tra democrazia e liberalismo è reso possibile dalla comunanza del punto di partenza: l’individuo. Il pensiero politico è infatti dominato dalla grande dicotomia organicismo/individualismo: si può, pur con una certa approssimazione, affermare che l’organicismo è antico mentre l’individualismo è moderno; il primo considera lo stato come un corpo composto di parti che concorrono alla vita del tutto, non attribuendo alcuna autonomia agli individui, il secondo considera invece lo stato come insieme di individui, risultato della loro attività e dei rapporti che essi stabiliscono tra loro. Per l’organicismo, ovviamente, secondo la formulazione aristotelica "la città è per natura anteriore all’individuo", Hobbes, invece, ipotizza uno stato di natura formato da individui separati dal loro egoismo costretti ad unirsi per sfuggire al reciproco annientamento. Il capovolgimento del punto di partenza è fondamentale per il pensiero politico moderno: per il liberalismo una concezione organica di uno stato superiore alle parti non può concedere spazio a nulla che sia indipendente dal tutto, non conosce distinzione tra pubblico e privato e non giustifica la sottrazione di interessi individuali, soddisfatti nel mercato, al supremo interesse pubblico; per la democrazia, che si fonda su una concezione ascendente del potere, l’organicismo, che si fonda su una concezione discendente, si ispira a modelli autocratici di governo.
Tuttavia l’individuo del pensiero liberale non è lo stesso di quello della democrazia. Individualismo non significa certo considerare l’uomo come essere isolato, ma i rapporti tra individuo e società possono essere valutati in modo diverso. Così il liberalismo recide l’individuo dal tutto dell’organicismo e lo fa vivere in gran parte fuori dal "grembo materno", inserendolo in un mondo pieno di pericoli in cui deve lottare per la sopravvivenza, la democrazia lo congiunge invece ad altri uomini perché la società venga ricomposta dalla loro unione non più come un tutto organico, ma come un’associazione di liberi individui. Inoltre il liberalismo mette in evidenza nell’individuo la capacità di autoformarsi, di progredire in condizioni di massima libertà; la democrazia esalta soprattutto la capacità di superare l’isolamento con vari accorgimenti che portano al costituirsi di un potere comune non tirannico. L’uno guarda la faccia dell’individuo volta all’interno, l’altra quella volta all’esterno creando due individui evidentemente diversi: microcosmo in se compiuto il primo, particella indivisibile ma variamente componibile in un’unità artificiale il secondo. I due individualismi nascono del resto attraverso processi diversi: per graduale erosione della totalità e il secondo per interna dissoluzione dell’unità globale. Il primo processo porta alla progressiva riduzione della sfera d’azione del potere pubblico, il secondo lo ricostruisce, ma come somma di poteri particolari, ricostruzione evidente nel contrattualismo che fonda lo stato su un istituto tipico del diritto privato quale è il contratto.

Liberali e democratici fra Seicento e Ottocento

La teoria e la prassi moderna dello stato liberale ebbero inizio nel Seicento inglese dove la rivoluzione puritana aprì la strada a tutte le idee di libertà e affermò la superiorità del parlamento sul re; la dottrina della separazione dei poteri ispirò Montesquieu e attraverso di lui il costituzionalismo americano e europeo. Anche l’idea della massima estensione del suffragio, caposaldo dell’ideale democratico moderno, ebbe la sua prima affermazione in quegli anni grazie ai Levellers (i Livellatori). Inoltre soltanto in Inghilterra, a partire dalla seconda rivoluzione (1688) il passaggio dalla monarchia costituzionale a quella parlamentare avvenne per interna evoluzione, senza scosse violente. In Francia il processo di democratizzazione fu molto più travagliato e il rapido passaggio dalla repubblica giacobina all’impero napoleonico suscitò forti sentimenti liberali antidemocratici che produssero il famoso luogo comune secondo cui democrazia e tirannia sono due facce della stessa medaglia.
In base al diverso modo di vivere il rapporto tra liberalismo e democrazia nel corso dell’Ottocento si creò un liberalismo radicale, liberale e democratico, contrapposto a uno conservatore, liberale ma non democratico. Allo stesso modo all’interno del movimento democratico vi furono democratici liberali e non liberali, interessati più alla distribuzione del potere che alla sua limitazione; questi ultimi si troveranno più vicini ai primi movimenti socialisti, anche se spesso in un rapporto di concorrenza come avverrà in Italia ai mazziniani.
Schematicamente il rapporto tra liberalismo e democrazia può essere dunque raffigurato secondo tre combinazioni: liberalismo e democrazia possono cioè essere compatibili e compossibili, antitetici oppure essere legati necessariamente secondo un rapporto rispettivamente di possibilità, impossibilità o necessità. Allo stesso modo si può rappresentare anche il rapporto tra democrazia e socialismo.

Tocqueville e Mill: la tirannia della maggioranza

L’ala più conservatrice del liberalismo europeo si riscontra nel pensiero di Alexis de Tocqueville, autore della Democrazia in America, che, nel secolo scorso, dedicò anni di studio alla democrazia di una società nuova e proiettata verso il futuro come quella americana. Egli era convinto che la libertà religiosa e morale fosse il fondamento del vivere civile, ma comprendeva che il suo tempo correva inesorabilmente verso la democrazia; per questa ragione, osservata negli Stati Uniti "l’immagine della democrazia stessa", egli si chiese come e se potesse sopravvivere la libertà in un regime democratico. Secondo il liberale francese il maggior rischio della democrazia come forma di governo che prospetta una partecipazione di tutti alla vita pubblica consiste nella tirannide della maggioranza e il pericolo che corre in quanto attuazione dell’ideale egualitario è il livellamento il cui sbocco finale è il dispotismo: entrambe le situazioni sono evidentemente la negazione della libertà. Il principio di maggioranza è egualitario dal momento che pretende di far valere la forza del numero su quella del singolo nella convinzione che vi sia più saggezza nel numero che nella qualità dei legislatori. L’onnipotenza della maggioranza ha per effetto tuttavia l’instabilità del legislativo, le decisioni spesso arbitrarie dei funzionari, il conformismo delle opinioni e l’assenza di uomini ragguardevoli sulla scena politica. Per un liberale come Tocqueville il potere è sempre negativo e li problema principale non riguarda l’identità del detentore di suddetto potere quanto il modo per controllarlo e limitarlo: il buon governo non si giudica dal numero delle persone che lo possiedono ma dal numero delle cose che è loro lecito fare. Egli sente avvicinarsi, nell’ultima parte della sua opera, il momento in cui la democrazia si rovescia nel suo contrario perché porta in sé un nuovo dispotismo sotto forma di un governo accentrato e onnipresente e cerca di proporre dei rimedi che sono quelli classici della tradizione liberale: la difesa di alcune libertà individuali e dell’individuo in genere spesso messo in secondo piano in nome dell’interesse collettivo, li rispetto dell’uguaglianza di fronte al diritto e il decentramento. Partendo da questa posizione Tocquevile, ovviamente, non potè mai trovarsi vicino al socialismo in cui vedeva l’attuazione di quello stato collettivista che sottraeva all'uomo la libertà, sostenendo che esso aveva in comune con la democrazia solo l’ideale dell’uguaglianza, ma, mentre la democrazia vuole l’uguaglianza nella libertà, il socialismo la vuole nella servitù.

Il contemporaneo John Stuart Mill fu invece esponente dell’ala del liberalismo più vicina al pensiero democratico considerando la democrazia come naturale sviluppo dei principi liberali. Richiamandosi alla filosofia utilitaristica di Bentham, egli non fondò la dottrina dei limiti del potere politico sull’esistenza di diritti naturali, che Bentham aveva aspramente criticato formulando il principio di utilità secondo cui il criterio su cui si deve basare il legislatore è quello della maggior felicità per il maggior numero, ma sulla convinzione obiettiva che se tali limiti devono esistere è solo in considerazione del fatto che gli uomini desiderano il piacere e fuggono il dolore. L’utilitarismo in base a tale concezione origina una morale che si preoccupa non dell’utilità dell’individuo isolato, ma dell’utilità sociale. Sulla scia del pensiero liberale l’utlitaristà Mill parla di libertà negativa, pertanto egli deve stabilire entro quali limiti sia concessa l’azione del potere pubblico e l’ambito in cui gli individui possano agire indisturbati; Mill sostiene dunque che " il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civile, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri.

Democrazia degli antichi e dei moderni


La teoria dello stato liberale è sostanzialmente moderna, mentre la forma di governo democratica è indubbiamente antica. La grecità ha lasciato una definizione di democrazia come governo dei molti in opposizione al governo di uno o di pochi e il significato del termine non è mutato pur nelle trasformazioni subite, nel corso dei secoli, del giudizio che se ne dà. Ciò che più propriamente è cambiato non è infatti il titolare del potere politico, che resta sempre il popolo, ma il modo in cui si esercita questo diritto: gli autori del Federalista, negli stessi anni della Dichiarazione dei diritti, contrappongono la democrazia diretta antica e medievale a quella rappresentativa. Essi sottolineano soprattutto la conflittualità della democrazia cittadina riprendendo il tradizionale disprezzo oligarchico per il popolo, mentre l’unica verosimile giustificazione dell’adozione della democrazia rappresentativa erano le grandi dimensioni degli stati moderni. Del resto lo stesso Rousseau aveva difeso la democrazia diretta sostenendo l’impossibilità di rappresentare la sovranità, ma aveva anche sostenuto che "una vera democrazia non è mai esistita né mai esisterà" perché richiede innanzitutto uno stato molto piccolo e altre condizioni tanto irrealizzabili da renderla possibile solo per un popolo di dei. Gli autori del Federalista erano convinti che l’unico governo democratico attuabile per un popolo di uomini fosse quello rappresentativo dove il popolo non prende le decisioni che lo riguardano direttamente, ma elegge dei rappresentanti che decidano in sua vece, ma non ritenevano che con ciò venisse meno il fondamento del governo popolare. La democrazia rappresentativa nasceva infatti anche dalla convinzione che gli eletti potessero valutare quali fossero gli interessi generali meglio dei cittadini, troppo condizionati dagli interessi privati, e pertanto garantire il raggiungimento dei fini della democrazia. Perché si trattasse effettivamente di democrazia rappresentativa era però necessario che fosse escluso il mandato vincolante dell’elettore verso l’eletto, caratteristico dello stato di ceti in cui ceti, corporazioni, corpi collettivi trasmettevano al sovrano, attraverso i loro delegati, le loro richieste particolari, e così fecero i costituenti francesi nel 1791. Da allora il divieto di mandato imperativo divenne peculiare del sistema parlamentare che proprio per questo si distingue dallo stato di ceti la cui dissoluzione libera l’individuo nella sua singolarità e autonomia: è all’individuo in quanto tale, dunque, e non al membro di una corporazione, che spetta il diritto di eleggere i rappresentanti della nazione. La democrazia moderna presuppone quindi l’atomizzazione della nazione e la sua ricomposizione a un livello più alto, e allo stesso tempo ristretto, che è quello parlamentare, ma si tratta dello stesso processo da cui è nata la concezione dello stato liberale, il cui fondamento è proprio l’affermazione dei diritti naturali dell’individuo.

Democrazia e uguaglianza

Mentre il liberalismo moderno e la democrazia antica sono stati spesso considerati antitetici, dal momento che la prima non era a conoscenza della dottrina dei diritti naturali né delle teorie relative alla limitazione dello stato e il secondo ha sempre espresso una certa diffidenza nei confronti di qualunque tipo di governo popolare, la democrazia moderna può addirittura essere considerata per certi versi la naturale prosecuzione del liberalismo a condizione che si prenda il termine democrazia nel suo significato giuridico. Storicamente esso ha due accezioni prevalenti: si può infatti dare rilievo alle regole la cui osservanza è necessaria perché il potere politico sia effettivamente distribuito tra la maggior parte dei cittadini oppure all’ideale dell’uguaglianza; in tal senso si tende a distinguere la democrazia come governo del popolo (o formale) dalla democrazia come governo per il popolo (o sostanziale). La prima accezione lega la democrazia allo stato liberale, la seconda finisce per tentare di risolvere il problema dei rapporti tra le due tradizioni nella difficile conciliazione di libertà e uguaglianza che, soprattutto se estese all’ambito economico, sono valori antitetici; liberismo e egualitarismo nascono infatti da due concezioni dell’uomo profondamente diverse: fine principale del primo è l’espansione della personalità individuale, anche lo sviluppo di quella più ricca e dotata può andare a svantaggio di quella più povera e meno dotata, scopo del secondo è invece lo sviluppo della comunità nel suo insieme, anche se ciò comporta una limitazione della libertà del singolo. L’unica forma di eguaglianza riconosciuta dalla dottrina liberale è infatti l’uguaglianza nella libertà, il che comporta il godimento di tanta libertà quanta sia compatibile con quella altrui; immediatamente da tale convinzione nasce l’approvazione dell’uguaglianza davanti alla legge, restrittivamente interpretato come formulazione del motto "la legge è uguale per tutti", ma che ha implicazioni più vaste se inteso come concetto in base a cui tutti i cittadini devono essere sottoposti alle medesime leggi e dunque devono essere soppresse le leggi dei singoli ordini o stati e si parla di uguaglianza proprio perché il risultato di un simile processo è la cancellazione di una precedente discriminazione e all’uguaglianza dei diritti. L’uguaglianza nei diritti discende direttamente da tali considerazioni costituendo un momento ulteriore di eguagliamento dal momento che, eliminate le discriminazioni, tutti possono godere dei medesimi diritti.

Libertà degli antichi e dei moderni


Constant: libertà degli antichi e dei moderni

L’esistenza attuale di regimi liberal-democratici porta a credere che liberalismo e democrazia siano interdipendenti, ma il problema dei loro rapporti è in realtà molto complesso. Comunemente con liberalismo si intende una concezione dello stato per cui esso ha funzioni e poteri limitati e si contrappone dunque sia allo stato assoluto che a quello sociale; democrazia è invece la forma di governo che prevede che il potere sia nelle mani di tutti o, meglio, della maggior parte. Uno stato liberale non è necessariamente democratico, anzi, tende a realizzarsi in società in cui il governo è riservato a gruppi ristretti, in particolare alle classi più abbienti. La medesima considerazione vale per il contrario, infatti lo stato liberale è stato messo in crisi proprio dal progressivo processo di democratizzazione dovuto all’allargamento del suffragio. La contrapposizione tra le due forme fu enunciata e argomentata da Benjamin Constant in un discorso del 1818 all’università di Parigi che diede inizio alla storia dei difficili rapporti tra le due esigenze fondamentali della limitazione e della distribuzione del potere. Constant distingue l’atteggiamento degli antichi, finalizzato alla distribuzione del potere tra i membri della città stato, e in ciò consiste la loro libertà, da quello dei moderni, che mira invece alla sicurezza dei godimenti privati le cui garanzie costituiscono ciò che essi chiamano libertà. Constant ritiene i due obiettivi in contrasto tra loro dal momento che il primo finisce per rendere l’individuo schiavo dell’intero, del pubblico, mentre il cittadino richiede al potere la libertà del privato. Constant parlava di antichi, ma il suo bersaglio era Rousseau che nel suo Contratto sociale aveva teorizzato un potere pubblico che, una volta istituito di comune accordo, continua a sussistere senza bisogno di dare garanzie ai suoi sudditi poiché " è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri".

I diritti dell'uomo, cardini del liberalismo

Il presupposto filosofico dello stato liberale è la dottrina dei diritti dell’uomo elaborata dal giusnaturalismo (scuola del diritto naturale): gli uomini hanno per natura alcuni diritti fondamentali che i detentori del potere non devono invadere e devono proteggere dall’altrui minaccia. L’attribuzione di un diritto consiste nel riconoscimento della facoltà di fare o non fare qualcosa e nel potere di resistere contro chi trasgredisca. Quest’ultimo ha pertanto il dovere di astenersi da ogni atto che interferisca con la facoltà di fare o non fare. Diritto e dovere presuppongono una norma di condotta e per giusnaturalismo si intende quella dottrina per cui esistono leggi non poste dalla volontà umana, e dunque precedenti a qualunque società, da cui derivano diritti e doveri che, nascendo da leggi naturali, sono anch’essi naturali. Il giusnaturalismo è spesso considerato il punto di partenza filosofico del liberalismo in quanto funzionale alla teoria dei limiti del potere sulla base di un’ipotetica concezione della natura dell’uomo che si sottrae a ogni genere di verifica. Lo stato di natura di Locke è una ricostruzione fantastica tesa a fornire una giustificazione della limitazione del potere. I diritti naturali sono la razionalizzazione di un processo reale che ha portato, in Inghilterra, alla lotta tra la monarchia e le altre forze sociali fino alla concessione della Magna Charta dove tali diritti sono chiamati libertà ovvero sfere protette dall’intrusione del potere coattivo del sovrano. Di fatto essa è il risultato di un patto fra parti contrapposte riguardante i reciproci diritti e doveri nel rapporto politico, oggetto principale sono infatti le forme e i limiti dell’obbedienza e, dall’altro lato, del diritto di comandare, per quanto giuridicamente si presenti come concessione regale, ovvero come atto unilaterale e non frutto di un accordo bilaterale, allo scopo di salvaguardare il principio della superiorità del monarca. Lo stato liberale nasce infatti storicamente proprio dal logoramento del potere assoluto e, talvolta, da una rottura rivoluzionaria; razionalmente esso viene invece fatto nascere da un accordo tra individui che decidono di stabilire le regole necessarie a una convivenza pacifica assente in uno stato di natura. In sostanza la dottrina filosofica inverte l’andamento storico.

Diritti naturali e contrattualismo

Affermazione dei diritti naturali e teoria del contratto sociale sono strettamente connessi. L’idea che l’esercizio del potere sia legittimo soltanto se fondato sul consenso di coloro su cui esso deve essere esercitato che sia dunque risultato, appunto, di un contratto, deriva dal presupposto dell’esistenza di diritti individuali, che non dipendono dal sovrano, la cui istituzione è orientata alla massima applicazione di tali diritti compatibile con la sicurezza comune. Contrattualismo e giusnaturalismo sono legati da una concezione individualistica della società in opposizione all’organicismo in cui il tutto viene prima delle parti; in un pensiero politico dominato da questo principio il contrattualismo rappresenta una svolta fondamentale teorizzando una società che non è più fatto naturale, bensì corpo artificiale creato e totalmente dipendente dagli individui che l’hanno costituita per il soddisfacimento dei bisogni privati e per l’esercizio dei diritti individuali. Senza una "rivoluzione copernicana", grazie alla quale il problema dello stato è visto dalla parte dei sudditi e non più da quella del sovrano, non sarebbe stata possibile l’elaborazione del liberalismo.

Stato di diritto e Stato minimo

Quando si parla di stato limitato, tuttavia, si può intendere uno stato limitato rispetto ai suoi poteri (stato di diritto) o rispetto alle sue funzioni (stato minimo). Sebbene entrambe le accezioni siano caratteristiche del liberalismo, non necessariamente si verificano sempre entrambe. Nel primo caso si identifica uno stato in cui i poteri pubblici sono regolati da norme generali e devono essere esercitati nel loro rispetto, rispecchiando la dottrina medievale della superiorità del governo delle leggi su quello degli uomini, tuttavia nella sua formulazione liberale ciò non significa solo la creazione di un rapporto di subordinazione del potere alle leggi, ma anche di queste ultime al riconoscimento dell’inviolabilità di alcuni diritti fondamentali. Sono parte integrante di tale convinzione tutti quei meccanismi costituzionali che ostacolano o precludono l'esercizio arbitrario o illegittimo del poter, tra cui il controllo dell'esecutivo da parte del legislativo, una relativa autonomia del governo locale, una magistratura indipendente dal potere politico. Si tratta di espedienti atti a garantire la libertà cosiddetta negativa, ovvero la sfera di azione in cui l’individuo non è costretto da chi detiene il potere coattivo a rinunciare all’espletamento dei suoi diritti. Nella tradizione liberale libertà e potere sono termini antitetici e la libertà è tanto più sicura da interferenze quanto più non solo sono in funzione i meccanismi tipici dello stato di diritto, ma si riconoscono allo stato compiti limitati al mantenimento dell’ordine pubblico interno e internazionale; anzi, questo secondo aspetto è condizione necessaria per l’effettiva attuazione del controllo del potere indubbiamente facilitato dalla ristrettezza dell’ambito d’intervento assegnato allo stato. Ogni organismo statuale è infatti sentito come male necessario, e riconoscendone la necessità il liberalismo si distingue dall’anarchismo, e intesa la libertà non nello stato, ma dallo stato, la formazione dello stato liberale coincide con un’emancipazione dell’individuo dai pubblici poteri, specie nella sfera religiosa e in quella economica. Non a caso, infatti, l’affermazione dello stato liberale coincide con la decadenza degli stati confessionali e con la fine dei privilegi e dei vincoli feudali in nome della libertà di scambio e della libera disposizione dei beni. Tali elementi fanno sì che si crei un’opposizione rispetto all varie forme di paternalismo secondo cui lo stato deve prendersi cura dei suoi sudditi, situazione considerata da Locke e soprattutto da Kant come il peggior dispotismo. Tanto in Kant quanto, da un punto di vista più strettamente economico, in Smith la dottrina della limitazione dei compiti dello stato si basa sul primato della libertà dell’individuo rispetto al potere sovrano e, di conseguenza, sulla subordinazione dei doveri del sovrano ai diritti o agli interessi dell’individuo. Un’opinione analoga è espressa anche, alla fine del Settecento, da Wilhelm von Humboldt che insiste soprattutto sulla funzione dello stato come strumento per la formazione dell’uomo e, criticando lo stato provvidenziale, afferma che un eccessivo interventismo del governo finisce per produrre un soffocamento della varietà di caratteri e disposizioni. A questo tema si ricollega un altro aspetto peculiare e innovativo del pensiero liberale la fecondità dell’antagonismo, in contrasto con l’elogio dell’armonia tipico dell’organicismo. Il conflitto diviene dunque condizione di progresso economico, politico, tecnico e scientifico e in questo contesto nasce la contrapposizione tra liberi stati europei e dispotismo orientale cosicché lo stato liberale diviene anche criterio di interpretazione storica.

lunedì 21 febbraio 2011

Hegel e la democrazia


Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), principale esponente dell’idealismo tedesco, si pone come spartiacque nella storia moderna del pensiero politico, punto di svolta nel ciclo che segna le teorie dello Stato nel processo di nascita, trasformazione e crescita della società borghese. La riflessione precedente, dal Cinquecento all’Ottocento, aveva posto le fondamenta teoriche dello Stato, da Hegel in poi si assiste alla rivincita della società, alla subordinazione del politico alle forze sociali. Questo cammino, per risultare comprensibile, deve essere percorso nelle tappe di sviluppo fondamentali del pensiero dello stesso Hegel. Gli scritti politici e politico-religiosi hegeliani sono poco conosciuti e sembrano destinati più alla lettura del politico "professionista" che a quella del filosofo: in essi infatti si arriva allo Stato e a una filosofia del diritto partendo dalla politica moderna stessa, dal problema del fare e dell’agire e si definisce la difficile accettazione della la storia del tempo da parte di chi cerca di capire il mondo perché non può cambiarlo.

Hegel non è il grande teorico della democrazia e la sua presenza in uno studio su questa particolare categoria del pensiero e della pratica politica potrebbe sembrare inopportuna, ma è interessante la sua lettura del mondo greco, che dell’idea democratica è stata la culla, il modello che ne trae e l’interesse storico volto a comprendere come e perché si sviluppano in un dato momento certe istituzioni politiche e non altre. Il suo pensiero inoltre presenta una concezione dello Stato come tutto e prospetta l’ideale di un uomo integrale, che non riportano solo alla Grecia, ma alle questioni relative al ruolo del cittadino e dello Stato che ogni regime democratico si deve costantemente porre per evitare squilibri: la libertà, la funzione della religione, la proprietà sono categorie che devono essere prese in considerazione a maggior ragione da un sistema democratico che si ripromette di tutelare nel modo migliore e più completo i cittadini, senza soffocarli.

La disuguaglianza di fatto

Rosenkranz, uno dei più celebri interpreti di Hegel, ha scritto che "Hegel voleva diventare il Machiavelli della Germania", e si può condividere tale affermazione non tanto per il recupero del fare politica nel mondo dell’etico, quanto, piuttosto, per il tentativo di pensare il politico nella sua autonomia, come un tutto dell’uomo e un tutto della società, che è il mondo dell’uomo, tentativo dunque di praticare la politica nella sua realtà quotidiana per cui Il Principe e la Costituzione della Germania si scrivono non per capire ma per agire, per porsi come leva che può far forza sulla realtà e rovesciarla, ribaltando i rapporti tra le forze. Questa rivoluzione non si attua però in senso democratico, non si trova in Hegel sovranità popolare, ma piuttosto la sovranità dello Stato, monarchia o repubblica non importa, sempre nella figura della classe o dell’individuo che si trova in quel momento al potere: politica e potere, forza, violenza calcolata. La scelta del realismo politico, tuttavia, non dispensa Hegel dal formulare le costruzioni utopiche, ma la Germania si costituirà nuovamente come Stato non secondo le vie previste da Hegel.

Nella Dissertatio philophica de orbitis planetarum (1801) Hegel fa affermazioni a dir poco paradossali giungendo a dire che "Lo stato di natura non è ingiusto e proprio per questo bisogna uscirne". E solo apparentemente opposta è la tesi successiva: il vero è il sistema dell’eticità. Infatti nel 1802 Hegel scrive nel Sistema dell’eticità (1802) che il rapporto tra uomini è posto con la disuguaglianza della forza della vita; non si può conseguentemente pensare a nessun diritto e a nessuna necessaria uguaglianza. Dove vi è una pluralità di individui vi è un rapporto e questo rapporto e di signoria e schiavitù. Nel medesimo scritto Hegel dice che l’idea dell’eticità si concretizza nel popolo: "Il popolo come totalità organica è l’assoluta indifferenza di tutte le determinazioni del pratico e dell’etico". Questa totalità va considerata secondo gli elementi costitutivi della sua idea: la costituzione dello Stato, momento di quiete dell’idea, e il governo, corrispondente al movimento; il primo ha come potenza gli stati, ovvero lo stato dell’eticità assoluta libera, dove l’essere reale e la sua idea sono un tutt’uno, lo stato della rettitudine, che si costituisce nel lavoro e nel possesso, nell’acquisto e nella proprietà, e lo stato della rozza eticità, quello del contadino. Per quanto riguarda il governo, invece, la forza dell'Intero è a esso connessa e i governanti non appartengono a nessuno dei tre stati sebbene provengano dal primo. Un tale sistema sembra ispirarsi alla contemporanea evoluzione politica francese specialmente il ceto generale come nobiltà guerriera di tipo napoleonico; ancora dal modello napoleonico deriva l’indipendenza dello Stato e delle sue funzioni rispetto alla base economica per cui la società borghese sembrerebbe esistere solo per servire allo Stato, subordinata alla sua universalità in quanto particolarità. Si assiste dunque a un’assolutizzazione e idealizzazione della politicità contrapposta alla sfera della società, tale che dovrà essere proprio la politicità a risolvere le determinazioni sociali.

Lo Stato dei grandi uomini e la società borghese: la tirannia dello Stato

Tra individuo e Stato si interpone infatti la società civile, la società borghese e il discorso di filosofia sociale sui ceti si fa discorso economico: signoria e servitù sono politica e economia ovvero la belva selvaggia dell’economico deve essere domata dalla tirannia politica e il campo di questa lotta è il corpo sociale dell’individuo, del borghese. Hegel scopre così non solo la pretesa di totalità mediatrice tipica dell’economia moderna, ma anche la potenza dell’individuo, fattori che aveva entrambi sottovalutato in precedenza come motori della società moderna. Sia il mito della Grecità, sia la riflessione sul Cristianesimo, sia la proposta di un principe per la Germania avevano oscurato l’esistenza del mondo borghese. Altri da questa scoperta saranno portati a rovesciare il rapporto materiale di potere tra economia e politica, tra società e Stato; Hegel, invece, per tutto il suo percorso precedente, è portato a accentuare ancora di più la supremazia del politico. In questo periodo Hegel rielabora la sua teoria dei tre stati, ribattezzando il primo stato come stato pubblico dell’universalità, "necessità e vita del fluire dell’universale nel particolare". Lo stato pubblico lavora per lo Stato ed è superato solo dallo stato dei soldati dove l’Intero è individuo, popolo rivolto contro gli altri e la necessità della guerra mantiene la salute dei popoli: per Hegel i trattati sono solo fantasticheria, l’amarsi l’un l’altro è bugia, quel che conta è solo la saggezza del governo, ovvero la capacità di comprendere ciò che lo spirito non vuole più: nella Rivoluzione francese sono stati liquidati gli stati formalmente privilegiati, ma la liquidazione dell’ineguaglianza tra stati è solo "vuota chiacchiera". Infatti, accanto alla saggezza, esiste la forza del governo che può essere efficace solo in quanto è unita in uno e così tutti gli Stati sono stati fondati dal potere superiore di grandi uomini la cui superiorità consiste nella capacità di esprimere una volontà assoluta. Nella Rivoluzione francese un potere terribile di tal genere ha conservato lo Stato, l’Intero, e tale potere è vera e propria tirannia, ma necessaria e giusta: l’errore dei Tedeschi è stata l’insofferenza a ogni tirannia che li ha portati a scomparire come popolo. La tirannia serve a dare leggi dove non esistono, ma quando esse sono state codificate la rendono esse stesse superflua e fanno subentrare il diritto. L’età napoleonica entra nelle opere di Hegel. L’epoca del soggetto assoluto sale alla ribalta nella rappresentazione della vita del tempo, da un lato come grande individuo politico storico e dall’altro come persona privata, borghese. Ma Hegel non crede che l’individuo possa dimezzarsi in una parte pubblica e in una privata, la scissione è più in grande: il singolo in quanto tale è il borghese, l’uomo pubblico è il tutto dello Stato ovvero c’è l’individuo nell’economico e l’intero nel politico. Se il primo è l’uomo nella sua dimensione quotidiana, il secondo è somma di umanità, ecco perché parlando di Stato si parla di grande uomo e viceversa. Questo concetto del Genio politico non viene banalmente suggerito a Hegel dalla figura di Napoleone, ma piuttosto quest’ultimo è colui che storicamente, in quel momento assume su di sè il concetto di Stato.

Nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (1817), compendio del suo pensiero, Hegel definisce con estrema chiarezza il percorso dell’eticità, ovvero della morale che si realizza nelle istituzioni e nei costumi di un popolo, individuandone tre momenti fondamentali. La famiglia, la società civile e lo Stato. La prima tappa è soltanto una società naturale, ma la conflittualità tra famiglie dà origine alla società civile che è il sistema di bisogni, ovvero l’organizzazione razionale di tutte le attività volte al soddisfacimento dei bisogni umani: la società civile non è società politica i cui appartenenti operano per un fine comune, ma, al contrario, è la società dei privati che operano per fini particolari che in quanto tali sono necessariamente in conflitto tra loro. La disuguaglianza economica che si genera nella società civile per effetto della distribuzione del capitale e della necessaria divisione del lavoro si oppone all’uguaglianza giuridica dei cittadini. Gli interessi particolari devono dunque essere composti in una totalità organica statale che Hegel definisce addirittura "l’ingresso di Dio nel mondo".

Hegel: la nascita dello Stato


Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), principale esponente dell’idealismo tedesco, si pone come spartiacque nella storia moderna del pensiero politico, punto di svolta nel ciclo che segna le teorie dello Stato nel processo di nascita, trasformazione e crescita della società borghese. La riflessione precedente, dal Cinquecento all’Ottocento, aveva posto le fondamenta teoriche dello Stato, da Hegel in poi si assiste alla rivincita della società, alla subordinazione del politico alle forze sociali. Questo cammino, per risultare comprensibile, deve essere percorso nelle tappe di sviluppo fondamentali del pensiero dello stesso Hegel. Gli scritti politici e politico-religiosi hegeliani sono poco conosciuti e sembrano destinati più alla lettura del politico "professionista" che a quella del filosofo: in essi infatti si arriva allo Stato e a una filosofia del diritto partendo dalla politica moderna stessa, dal problema del fare e dell’agire e si definisce la difficile accettazione della la storia del tempo da parte di chi cerca di capire il mondo perché non può cambiarlo.

Hegel non è il grande teorico della democrazia e la sua presenza in uno studio su questa particolare categoria del pensiero e della pratica politica potrebbe sembrare inopportuna, ma è interessante la sua lettura del mondo greco, che dell’idea democratica è stata la culla, il modello che ne trae e l’interesse storico volto a comprendere come e perché si sviluppano in un dato momento certe istituzioni politiche e non altre. Il suo pensiero inoltre presenta una concezione dello Stato come tutto e prospetta l’ideale di un uomo integrale, che non riportano solo alla Grecia, ma alle questioni relative al ruolo del cittadino e dello Stato che ogni regime democratico si deve costantemente porre per evitare squilibri: la libertà, la funzione della religione, la proprietà sono categorie che devono essere prese in considerazione a maggior ragione da un sistema democratico che si ripromette di tutelare nel modo migliore e più completo i cittadini, senza soffocarli.

Lo stato di natura e l’ingresso della politica

La politica soggettiva, problema del giovane Hegel, non trova sistemazione nella maturità: è l’unico vero non conciliato della sua filosofia. Uno scritto su tutti emerge, la Costituzione della Germania (1801-2), composta con uno stile da manifesto politico, che racchiude le due facce del pensiero pratico: la critica dell’ideologia e il realismo politico, per comprendere "ciò che è". I più tendono infatti a considerare al di là dei fatti una incredibile quantità di concetti e fini e pretendono che ciò che accade sia conforme a questi. Una teoria dello Stato, per essere considerata reale non deve solo essere attuabile, deve coincidere con la realtà. I tedeschi, a detta di Hegel commettono proprio questo errore considerando la Germania ancora uno Stato sulla base del fatto che essa lo è stata una volta. Tuttavia la Germania non è più uno Stato o, meglio, lo è solo in teoria e non nella realtà: lo Stato in astratto è un organismo costituzionale che non ha alcuna forza e alcuna presa sul reale. L’errore è quello di considerare che ogni opera umana consapevole, mossa da giustizia e da ideali fantastici, possa reggere contro la più alta giustizia della natura e della verità, che invece piega gli uomini con il suo sviluppo necessario, con la determinatezza del destino. Non c’è potenza di uno stato senza politica che, da base degli organismi statali più deboli è diventata soluzione dei rapporti reciproci tra i più forti corpi statali. Hegel sembra recuperare la prospettiva dello stato di natura: "La trasformazione del diritto del più forte in politica va considerato come nient’altro che il passaggio dall’anarchia a un ordinamento costituzionale. A cambiare non è stato il vero principio, ma il suo lato esteriore." Prima chi si riteneva offeso attaccava senza esitazione, ora, in politica, prima di attaccare si calcola: si passa dall’aperta violenza alla violenza ben calcolata attraverso l’introduzione di un ordinamento politico sancito da leggi. La legge è dunque presupposto della politica che è a sua volta l’unica possibilità di pace e solo i moralisti possono denigrarla come arte del cercare il proprio utile a danno del diritto, ma se considerassero che gli interessi, e dunque anche i diritti, possono entrare in collisione, capirebbero che è stupido istituire una contrapposizione tra il diritto e l’interesse dello Stato: dipende solo dalle circostanze, dalle combinazioni di potenza se quell’interesse e quel diritto in pericolo vadano difesi con tutta la potenza dello Stato. Nei conflitti, infatti, non esiste il vero diritto dal momento che ciascuna delle parti ne ha uno, ma bisogna decidere quale dei due debba cedere di fronte all’altro e ciò dipende solo dalla sua potenza come dimostra, secondo Hegel, il processo di formazione degli Stati europei moderni. Il punto di forza fu sin dall’inizio il costituirsi di un centro ispirato a leggi liberamene stabilite intorno a cui raccogliere tutte le forze e non aveva importanza la forma, fosse essa monarchica o repubblicana: la Francia aveva, ad esempio, come principio la monarchia, la Germania la formazione di una moltitudine di Stati indipendenti. Fu Richelieu che, portando a piena maturità il principio su cui entrambi si strutturavano ne determinò il loro sistema stabile, l’uno opposto all’altro; la Francia divenne una grande potenza, la Germania fu soppressa come Stato. Ma a compiere quest’opera non fu Richelieu, ma il fatto che il suo genio si identificasse con il principio di quello Stato: stabilita tale connessione non c’è possibilità di sconfitta.

La necessità della forza

Machiavelli non vince, anche se Hegel lo loda per l’acutezza della sua intuizione della necessità di un’unificazione statale dell’Italia per la sua salvezza, ma non basta la convinzione, è necessaria la forza. Questo Hegel comprende quando teorizza per la Germania il bisogno di riorganizzarsi in Stato; il popolo tedesco deve insomma essere riunito dalla forza di un conquistatore e costretto a considerarsi appartenente alla Germania.: il conquistatore sarebbe protetto dal dominio sulle forze armate, ma non dall’odio che si sviluppa neceGiustificassariamente contro coloro che, come fece Richelieu, spezzano gli interessi particolari e i privilegi corporativi degli uomini. Tuttavia solo quando gli organismi sociali esistenti siano distrutti l’uomo è portato all’estrema chiusura in se stesso e nella sua singolarità, ma se la nazione tedesca non è capace di tale isolamento significa che il particolare e il privilegio sono penetrati cosi intimamente che neppure la consapevolezza della necessità è più sufficiente a indurre all’azione, a uccidere e a farsi uccidere finchè lo Stato sia distrutto. Anzi, è proprio la consapevolezza a indurre a una diffidenza contro se stessi che rende necessario l’intervento della forza per giustificare la necessità stessa dello Stato e solo allora l’uomo vi si sottomette. Il conquistatore è il concetto storico dell’unità dello Stato, della sua autonomia, della sua violenza contro tutto ciò che porta avanti nei suoi confronti la pretesa del particolare: che tale conquistatore sia Napoleone o chiunque altro non è importante.

Hegel: l'assoluto affermarsi della politica e dello Stato. Dalla storia alla politica.


Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), principale esponente dell’idealismo tedesco, si pone come spartiacque nella storia moderna del pensiero politico, punto di svolta nel ciclo che segna le teorie dello Stato nel processo di nascita, trasformazione e crescita della società borghese. La riflessione precedente, dal Cinquecento all’Ottocento, aveva posto le fondamenta teoriche dello Stato, da Hegel in poi si assiste alla rivincita della società, alla subordinazione del politico alle forze sociali. Questo cammino, per risultare comprensibile, deve essere percorso nelle tappe di sviluppo fondamentali del pensiero dello stesso Hegel. Gli scritti politici e politico-religiosi hegeliani sono poco conosciuti e sembrano destinati più alla lettura del politico "professionista" che a quella del filosofo: in essi infatti si arriva allo Stato e a una filosofia del diritto partendo dalla politica moderna stessa, dal problema del fare e dell’agire e si definisce la difficile accettazione della la storia del tempo da parte di chi cerca di capire il mondo perché non può cambiarlo.

Hegel non è il grande teorico della democrazia e la sua presenza in uno studio su questa particolare categoria del pensiero e della pratica politica potrebbe sembrare inopportuna, ma è interessante la sua lettura del mondo greco, che dell’idea democratica è stata la culla, il modello che ne trae e l’interesse storico volto a comprendere come e perché si sviluppano in un dato momento certe istituzioni politiche e non altre. Il suo pensiero inoltre presenta una concezione dello Stato come tutto e prospetta l’ideale di un uomo integrale, che non riportano solo alla Grecia, ma alle questioni relative al ruolo del cittadino e dello Stato che ogni regime democratico si deve costantemente porre per evitare squilibri: la libertà, la funzione della religione, la proprietà sono categorie che devono essere prese in considerazione a maggior ragione da un sistema democratico che si ripromette di tutelare nel modo migliore e più completo i cittadini, senza soffocarli.

Dalla storia alla politica

Già a partire dagli anni giovanili Hegel mostra un costante interesse per la storia e per il fare una storia pragmatica che non è solo racconto di fatti, ma anche studio del carattere degli uomini illustri, di una nazione intera e dei suoi costumi, quando si prendono in considerazione peculiarità e trasformazioni, acme e decadenza di questa. Le letture di quel periodo testimoniano tale interesse e contribuiscono a fissare la nascita del primo illuminismo hegeliano: c’è un Illuminismo nelle scienze e nelle arti e un Illuminismo degli uomini comuni, difficile da cogliere, perché si manifesta nella vita quotidiana degli uomini e ha sempre finito per conformarsi alla religione del tempo. E’ questa la tesi di fondo di Sulla religione dei Greci e dei Romani (1787): " I popoli da nient’altro si fanno guidare più docilmente che dalla religione". Greci e Romani hanno insegnato come far nascere e vivere una religione popolare in grado di educare se non diviene superstizione né speculazione, mentre l’intervento e la confusione di questi due piani è il denominatore comune di tutta la storia delle religioni. E’ degli stessi anni un dialogo, ambientato all’epoca degli accordi per il secondo triumvirato, tra Lepido, Antonio e Ottaviano, in cui la supremazia di quest’ultimo si giustifica proprio in base alla sua capacità di tenere conto innanzitutto del fattore su cui si propone di agire, ovvero del momento storico: bisogna tenere conto della storia per fare politica ed è questo il fondamento del pensiero politico hegeliano che lo accompagna in tutte le successive formulazioni. Gli appunti di quegli anni testimoniano inoltre la considerazione del ceto medio come ceto di governo in quanto capace di portare avanti l’illuminismo sia nei confronti delle classi inferiori sia verso le classi superiori e la chiara percezione del mutamento e del progresso storico in cui anche ciò che appare come casuale è solo l’impercettibile avanzare delle trasformazioni da cui derivano, in ultima analisi, anche le grandi rivoluzioni. Hegel assorbe la convinzione di vivere in un momento di trapasso e esorta a abbandonare la chiusura umanistico-religiosa accettando invece il contatto con la realtà, l’esperienza diretta e concreta. Gli avvenimenti si muovono dalla storia alla politica ma, è l’interrogativo del primo e dell’ultimo Hegel, come si risale con l’attività politica a quest’alta misura storica del tempo?

Religione popolare e religione oggettiva

Il primo dato da rilevare nell’esperienza hegeliana al collegio teologico di Tubinga (lo Stift) tra il 1788 e il 1793 è la prepotente irruzione nella sua vita dei grandi avvenimenti del tempo, primo tra tutti la Rivoluzione francese, che contribuiscono a orientare il suo pensiero più che verso le ricerche teoretiche, verso una filosofia della storia e l’elaborazione di ideali di rinnovamento culturale e politico dell’umanità. I suoi studi sulla religione sono fondamentali: egli pone una netta distinzione tra religione popolare o soggettiva e religione oggettiva con una chiara preferenza per la prima in quanto al religione non è solo scienza intorno a Dio ma interessa il cuore i sentimenti e le azioni; la teologia, che è il costitutivo fondamentale della religione oggettiva è solo una, e non certo la più importante, componente della religione soggettiva dal momento che, guidata solo dall’intelletto e non dal sentimento, chiarisce i principi, li rigorizza, ma non li rende pratici. La religione popolare deve invece includere tutti i bisogni della vita e le azioni pubbliche della vita statale, come faceva quella dei Greci e dei Romani a differenza di quella cristiana. Esiste, secondo il Giovane Hegel, un nesso inscindibile tra lo spirito di un popolo, la sua storia, la sua religione e il grado di libertà di cui gode. Affare di una religione privata è formare i singoli uomini, formare lo spirito di un popolo è compito della religione popolare da un lato e dei rapporti politici dall'altro. Lo spirito dei popoli, il loro agire politico, è figlio di Cronos, delle circostanze del tempo, e della politèia, la costituzione, e ha per nutrice la religione popolare o nazionale.

Dispotismo e libertà

Nel quarto frammento di Religione popolare e cristianesimo (1793-94) Hegel nega validità alla religione oggettiva sostenendo come la virtù insegnata e assorbita da altri non resista alla prova dell’esperienza. Molti insegnanti sono stati inutili e persino controproducenti, ma due maestri Hegel salva sempre dalla sua condanna, Gesù e Socrate; tuttavia fra i Romani non fu necessario nessun uomo di tal genere dal momento che, al culmine della potenza, quando solo una virtù aveva valore, nessuno poteva essere incerto su come agire. Hegel conosce bene la differenza tra epoche di crisi politica e epoche di alta potenza dello Stato in cui nulla è incerto e non sono necessari Cristo e Socrate, ma la sua è epoca di rottura e bisogna decidere che cosa fare: è in epoche come questa che l’ortodossia religiosa intrecciata saldamente all’organismo statale e i teologi opportunisti, legati a vantaggi temporali, devono essere scacciati violentemente per poter ribaltare la situazione e togliere alla religione il suo ruolo di copertura mistificante di un organismo statale opprimente. Il quinto frammento della medesima opera si iscrive in questo quadro proponendo una filosofia della storia in tre momenti, dove la condizione politica, e solo essa, sembra decisiva per la storia di un popolo, mentre la religione si limita ad esprimere tale costituzione politica: dall’antico repubblicano della polis greca, che sentiva connaturato a sé ogni servigio reso alla patria, si passa al cristiano che vive la sua vita privata come massima espressione della sua umanità, spinto da una condizione di sudditanza a disprezzare se stesso per conferire al cielo tutto ciò di cui si spoglia, che ha bisogno di una vita futura per poter sopportare questa terrena. Infine Hegel coglie nel suo tempo i germi di un’era nuova, in cui può scomparire la chiusura nell’individuale e nella trascendenza garantendo una rivalutazione dell’uomo, delle sue azioni e dei suoi aspetti migliori che egli recupera dal cielo, non dimenticando però l’epoca della sua corruzione: compito dello Stato deve essere proprio quello di rendere nuovamente soggettiva la religione; religione e politica continuano a viaggiare su binari paralleli, ma la prima non deve più insegnare ciò che il dispotismo vuole, il disprezzo per il genere umano, mostrando invece come devono essere le cose e cancellando così la passiva acquiescenza all’esistente in precedenza accettato in nome dell’inettitudine umana e della speranza ultraterrena. In una repubblica, questo emerge dai primi scritti hegeliani, è per un’idea che si vive, nelle monarchie solo per dei singoli, nell’una per "come deve essere", nell’altra per "come è".

Stato e popolo: il ruolo della Chiesa

"Voi anche desiderate, spesso, vedere il regno di Dio fondato sulla terra. Spesso vi si dirà che qui o lì c’è una simile fraternizzazione degli uomini sotto le leggi della virtù. Non correte dietro questi miraggi. Non sperate di vedere il regno di Dio in una esterna, brillante unione degli uomini, per avventura sotto la forma esteriore di uno Stato, in una società qualunque, sotto le leggi pubbliche di una Chiesa." Con queste parole si rivolge Gesù ai suoi discepoli nella Vita di Gesù, esplicitando la tesi hegeliana secondo cui il passaggio da un simile maestro a una religione positiva, il tema fondamentale della Positività del cristianesimo (1795), è dovuto da un lato all’azione dei discepoli, dall’altro alla peculiarità della situazione politica ebraica di schiavitù. Nasce per queste ragioni una Chiesa che vuole assumere le funzioni di uno Stato approntando codici morali e procurando in tal modo allo Stato, anzi, ai governanti, dal momento che lo Stato risulta così distrutto, innegabili vantaggi poiché influisce direttamente sulle disposizioni d’animo e fa assumere la dimensione di affare di Stato a ciò che, come le scelte morali, era in precedenza un affare privato. La Chiesa reprime insomma ogni libertà del volere, Hegel vuole invece ribadire l’autonomia dello Stato da tale dispotismo morale che e divenuto anche dispotismo in campo politico, terreno in cui lo Stato dovrebbe avere supremazia assoluta. Uno Stato non dovrebbe avere fede, così come i cittadini in rapporto allo Stato non dovrebbero essere separati da alcuna esclusione sociale; infatti, rileva Hegel, in maniera simile alla Chiesa si comportano, nei confronti dello Stato, anche le corporazioni e, anche in tal caso, lo Stato sacrifica i diritti dei suoi cittadini. Le corporazioni sono una società con pretese verso la politica così come la Chiesa è una comunità morale con pretese verso la legalità; lo Stato si trova nella situazione opposta: non può richiedere moralità ai suoi cittadini in quanto il suo fine è la legalità, ma è nel suo interesse che i cittadini siano moralmente buoni e a tal fine la religione è lo strumento migliore. Ciò non significa però proporre un’identificazione tra Stato e Chiesa dal momento che non esiste identità neppure tra legalità e moralità: quello che lo Stato non può fare lo deve fare la politica o, meglio, il politico che è nella posizione giusta per mediare le sue scelte d’azione con la considerazione del suo tempo e del suo popolo.

La crisi della "bella unità" tra Stato e cittadino

Se il giovane Hegel si scaglia contro la positività della religione cristiana che non plasma l’azione pratica degli individui, egli celebra invece la "bella unità" del mondo greco tra Stato e cittadino. Tuttavia egli è consapevole del fatto che tale unità era destinata a spezzarsi e interpreta il soppiantamento della religione pagana da parte del cristianesimo come un processo rivoluzionario che, come tale, deve essere preceduto da una rivoluzione intima e silenziosa nello spirito dell’epoca. Una religione tanto radicata negli animi e nelle istituzioni statali, una religione vincolata alla vita degli uomini da mille fili era legata a una considerazione dello Stato e della patria come elemento superiore per cui ogni uomo operava e di fronte a tale idea l’individuo scompariva, solo per essa viveva e solo in momenti di inerzia poteva affiorare un pensiero che riguardava solo se stessi. La decadenza si attua proprio quando il cittadino non vede più lo Stato come prodotto della propria attività politica: lo Stato diviene macchina in cui ognuno ha un posto assegnato e in cui pochi sono i veri artefici, i detentori delle leve del potere. Lo Stato non è più del cittadino che dunque ricerca l’assoluto, l’ideale, i suoi principi morali altrove, nel Dio che il cristianesimo gli offre. Non c’è più Stato, ma Chiesa, con una differenza fondamentale, però, la perdita della libertà e quando la perdita di ogni libertà politica porta al disinteresse per lo Stato e gli interessi privati prevalgono sul bene pubblico, lo Stato stesso diviene, agli occhi di colui che non ne è più il detentore, solo un organismo di controllo e tutela di quel privato. Di qui l’avversione, ad esempio, per il servizio militare, dal momento che esso si presenta proprio come minaccia alla conservazione della proprietà privata della vita il cui fine ultimo e onorevole non è più la difesa della patria. Hegel parla del mondo cristiano, ma il riferimento polemico è alla Germania del suo tempo: egli comprende il nodo politico della storia e vuole agire per il mutamento. Sembra che Hegel abbia abbozzato in questo periodo anche a progetti pratici e il rovesciamento attuato dalla Rivoluzione francese offriva certo spunti a tali pensieri come testimonia anche lo scambio epistolare con Holderlin.

Il problema della pratica politica: politica oggettiva e politica soggettiva

A Francoforte, tra il 1796 e il 1800 nasce il sistema filosofico hegeliano, viene elaborata la dialettica, il vero è conciliato. Anche dal punto di vista politico le idee di Hegel si fanno più mature: le categorie del religioso e del politico si staccano e si contrappongono alla religione e alla politica: la religione cristiana è negata dall’elemento religioso, l’esperienza rivoluzionaria è negata da quello politico. La rivoluzione a cui Hegel pensa non può che essere quella francese e soprattutto la sue esportazione e le reazioni da essa suscitate nel vecchio sistema politico, insomma, rivoluzione e controrivoluzione nell’Europa e, soprattutto, nella Germania post-rivoluzionaria e pre-napoleonica. Lukacs sostiene che "I ragionamenti di Hegel nel periodo di Francoforte muovono quasi sempre, in netto contrasto con la sua evoluzione anteriore e successiva, da esperienze di sapore individuale e recano stilisticamente i segni della passionalità come della confusione e mancanza di chiarezza dell’esperienza personale". L’evoluzione si manifesta innanzitutto nel fatto che egli inizia a vedere nella società borghese un fatto fondamentale e immutabile, con la cui essenza e le cui leggi deve fare i conti in sede teorica e pratica: da qui scaturisce il metodo dialettico di Francoforte, la dialettica della conciliazione non del reale, o non solo, ma con il reale. Resta tuttavia il problema della conciliazione tra pratica e teoria, l’opposizione tra i due livelli della politica e la loro possibile conciliazione nella dimensione soggettivo-oggettiva dell’amore. L’attività pratica, dice Hegel, agisce liberamente, senza l’unione di un opposto e senza essere da questo determinata. L’attività pratica non ha niente di oggettivo di contro a sé che possa fermare la sua libera marcia, è del tutto soggettiva e quando trova l’oggetto lo annulla; non è conoscenza poiché le sintesi teoretiche sono totalmente oggettive, ma non è neppure estrema soggettività perché in tal caso si troverebbe a dipendere da un oggetto tentando di sfuggire ad esso. L’io pratico è attività ideale, che va oltre il reale, ma che non ha per fine una meta ideale: non domina e non è dominata dall’oggetto. In una fede positiva l’io pratico non sussiste perché ha perso ogni autonomia ponendosi un fine oggettivo, ovvero una meta ideale che non può divenire soggettiva. L’elemento pratico può essere qui presente solo teoreticamente e si crea così la contrapposizione tra il cammino della fede positiva che unifica ciò che non è unificabile, soggettività e oggettività, e una religione che è una con l’amore: il confronto non è più tra pratica e teoria, tra attività e conoscenza, ma tra politica e positività, ovvero sempre all’interno di attività con pretese pratiche, ma con rapporti diversi rispetto all’oggetto e con una diversa unificazione tra il reale e il possibile. Il tema dall’amore è la risoluzione provvisoria del problema. L’epoca post-rivoluzionaria sposta il problema tra ciò che deve essere e ciò che è, tra morale e politica, tra religione oggettiva e politica tutto all’interno della politica stessa. La domanda è: quale attività pratica (del filosofo o del profeta religioso che è immediatamente leader politico)? Su che cosa (sull’individuo, sulla realtà storica, sulla società o sullo Stato)? Perché (per cambiare o per conservare)? C’è una positività anche nella politica: l’azione non è un agire, ma un patire; fondamento dell’agire politico non positivo può essere solo la fede in qualcosa che è. Nel 1798 Hegel affronta il tema della rivoluzione proprio nei termini della contraddizione tra soggettività e oggettività della politica: tra volontà di mutamento, cioè, e la necessità, anch’essa politica, di tenere conto delle resistenze del luogo e del tempo. Gli uomini ammettono la necessità di un cambiamento, ma quando si tratta di mettersi all’opera, mostrano la debolezza di voler conservare tutto ciò che possiedono.

Lo Stato come intero

A Francoforte c’è dunque un Hegel degli scritti politici, cioè il politico pratico che cerca di aprirsi la via per l’azione nel suo tempo, c’è l’Hegel degli scritti teologici, ovvero il teorico della politica, e infine quello degli studi storici e persino economici che raccoglie dati che vanno rielaborati per il pensiero e utilizzati per la possibile attività. Il Settecento si chiude con l’esplodere dell’idea hegeliana dello Stato come Intero, come Tutto, elaborata nel 1799: "L’edificio della costituzione politica della Germania è l’opera di secoli remoti; (…).E’ venuto ad essere, così, un edificio statale le singole parti del quale hanno acquisito i propri diritti per propria forza, e non hanno avuto nulla assegnato dall’universale, dallo Stato come Intero: mentre nelle costituzioni ogni potere politico e ogni diritto del singolo è conferito dall’universale, in Germania il singolo membro deve soltanto a se stesso il potere statale di cui gode." In una contemporanea pagina di commento a Kant di trova accostato al principio dello Stato organico il concetto di uomo complessivo, che non può frantumarsi in un particolare uomo dello Stato e in un particolare uomo della Chiesa. Ciò non significa esaltare l’autonomia della politica: l’autonomia, infatti, in quanto separatezza è per Hegel nemica; relativamente a tale argomento la riflessione storica è illuminante: Hegel non guarda al Medioevo dove l’universale politico aveva facili esempi, ma guarda ancora alla Grecia e all’Italia comunale, all’Inghilterra, come Stato moderno. Perché non l’Impero? Perché, scrive Hegel commentando Tucidide, nel piccolo Stato si può dire "noi", nelle grandi repubbliche no: in tal caso il cittadino può dire di appartenere alla nazione, ma non si può identificare con essa. L’Intero esercita in tal caso un dominio sull’individuo che è dunque sottomesso: un grande popolo libero è una contraddizione in se stesso e tutti e ciascuno sono sempre sudditi dell’Intero.
Il punto in cui la vita di Hegel tenta di rapportarsi al suo tempo e al suo paese nella connessione di un Intero è un punto di svolta nella concezione moderna dello Stato: lo Stato è destino, deve essere e non è semplicemente. Hegel intuisce che il punto di partenza del politico non è negli individui, ma nello Stato stesso: il fare politico moderno si iscrive nello Stato, senza principi e tra uomo di Stato e uomo di principi Hegel sceglie il primo.

sabato 19 febbraio 2011

Schiller: la totalità interrotta - Le Lettere sull’educazione estetica dell’uomo


Schiller e la realtà comtemporanea: il rapporto con la rivoluzione

Le prime nove Lettere sull’educazione estetica dell’uomo contengono l’esposizione più diffusa e esauriente del pensiero schilleriano sulla società contemporanea. Già l’avvio dimostra la consapevolezza che Schiller ha del momento presente. "Gli sguardi del filosofo come dell’uomo di mondo sono fissati, pieni di aspettativa, sulla scena politica, dove ora, a quanto si crede, si discute il grande destino dell’umanità". Quest’ora è tanto più importante in quanto "una questione che una volta si risolveva solo con il cieco diritto del più forte, è stata portata ora, a quanto pare, davanti al tribunale della ragione pura, e chiunque è capace di mettersi al centro del tutto e di levare il proprio individuo fino alla specie, può considerarsi giudice di quel tribunale della ragione, mentre come uomo e cittadino del tempo è nello stesso tempo parte, e si vede più o meno da vicino coinvolto nell’esito del processo. Non è dunque soltanto una sua propria causa privata che viene decisa in questo grande processo, la sentenza deve essere pronunciata secondo leggi che egli stesso come spirito ragionevole ha la capacità e il diritto di dettare."(NA 20, 1, II 312; it. 207). La specificità introdotta dalla rivoluzione francese è colta qui in tutta la sua portata: la rivoluzione non costituisce solo di fatto una cesura con il passato, ma introduce principi normativi che rendono ciascun individuo e ciascun popolo giudice, oltre che attore della storia. Essa pronuncia un giudizio di condanna sul passato, ma insieme fa appello a valori di civiltà assoluti. E’ in nome di questi che l’intera storia del passato può essere dichiarata nulla, "perché l’opera di forze cieche non possiede un’autorità davanti a cui la libertà debba piegarsi" (NA 20, 1, III, 314). E la pretesa di trasformare questa condizione secondo principi morali è la grande bandiera che l’uomo, divenuto maggiorenne, sventola. Ma questo passaggio dallo stato fisico, che è reale, a quello morale, che è problematico, reca con sé enormi preoccupazioni. Si è infatti in presenza di un processo che avviene nel corso stesso della storia ("si tratta di cambiare la ruota che gira, durante il suo movimento"); occorre abbandonare lo stato naturale, da cui ancora la società dipende, per sostituirvi quello stato morale, che ancora non esiste. Si tratta di passare dallo "stato del bisogno" allo "stato della libertà". Ora, questo passaggio dall’uomo reale, che è l’uomo empirico, all’uomo puro e ideale, che è rappresentato dallo stato, può avvenire, almeno dal punto di vista ipotetico, almeno in due modi: "o l’uomo puro assoggetta l’empirico e lo stato annulla gli individui, o l’individuo diventa stato e l’uomo nel tempo si nobilita diventando l’uomo nell’idea" (NA 20, 1, IV, 316). Ma solo quest’ultima soluzione che non si afferma attraverso il sacrificio della condizione naturale è degna di una cultura che ha raggiunto il suo culmine. "L’uomo colto si rende amica la natura e ne rispetta la libertà, frenandone solo l’arbitrio" (NA 20, 1, IV 318).

Il rapporto problematico con l'Illuminismo e l'educazione estetica

A ragioni di principio va ricollegato il netto rifiuto schilleriano di una trattazione politica: "per risolvere quel problema politico nella pratica bisogna prendere la via attraverso il problema estetico perché alla libertà si giunge solo attraverso la bellezza" (NA 20, 1, II 312)
Ma a esse vanno aggiunte alcune considerazioni di fatto. L’epoca contemporanea è soggetta ai due estremi della decadenza umana: inselvatichimento e rilassamento. "Nelle classe inferiori e più numerose ci si presentano istinti rozzi e anarchici che, sciolto ogni vincolo di ordine civile, si scatenano e corrono con indomabile furore al loro brutale appagamento. D’altra parte le classi colte ci danno lo spettacolo ancora più odioso del rilassamento e di una depravazione del carattere, che tanto più indigna, quanto più ne è fonte la cultura stessa. La possibilità "fisica" che sembra affacciarsi di "mettere la legge sul trono, di onorare finalmente l’uomo come fine a se stesso e di porre la vera libertà a fondamento dell’unione politica" è vanificata dalla mancanza di una possibilità morale. Con un linguaggio certo non schilleriano si potrebbe dire che, se sono presenti le condizioni oggettive per una trasformazione profonda, mancano però quelle soggettive. Il ricorso a un progetto estetico, che è in ultima analisi un progetto di rivoluzione culturale, trova giustificazione anche in ciò. La preoccupazione più acuta di Schiller, che la vicenda storica si chiuda attraverso il cieco gioco delle forze, di sapore anticipatamente hegeliano, determina il suo retrocedere di fronte alla rivoluzione, ma non può essere scambiata semplicemente con un conservatorismo miope. Piuttosto si dovrebbe sottolineare come, congiunto all’acuta consapevolezza della eccezionalità del momento, vi sia il timore che l’esito infelice della rivoluzione abbia un valore che superi la mera contingenza e divenga, anche per le generazioni a venire, elemento di ostacolo. Citando un’affermazione piuttosto che un’altra si può piegare Schiller verso o contro la rivoluzione. L’elemento discriminante comunque va ricercato non nella maggiore o minore adesione a essa, ma nel rifiuto a lasciare decidere alla storia della legittimità o meno dei principi della rivoluzione. Nella misura in cui fa appello a principi ideali e etici sovrastorici quest’atteggiamento può chiaramente essere considerato non - rivoluzionario, anche se ciò non è equivalente a antirivoluzionario. Ciò che entra in crisi in Schiller non è la speranza illuministica in una rivoluzione della ragione, ma la fiducia che la storia empirica e la norma ideale procedessero di pari passo, che nella storia, sebbene nascosta e a volte anche distorta, fosse all’opera la ragione. L’astrattezza ingenua dell’illuminista che enuncia principi senza curarsi del loro divenire realtà era stata contraddetta dallo sviluppo culturale dell’umanità. Lo sviluppo storico per procedere ha bisogno di un termine di mediazione che la cultura illuministica non ha considerato. A questo adempie l’educazione estetica, come mediazione tra intelletto e sensibilità. Il distacco, la forbice che si apre sempre più tra ideale e reale, richiede una correzione in profondo, se non si vuole che sia il cieco domani a giudicare della legittimità dell’oggi. E’ in questa prospettiva, insieme antilluministica, nella misura in cui è criticamente consapevole dei limiti di quella cultura, e illuministica, nella misura in cui il processo passato - presente - futuro è concepito in uno sviluppo lineare, che Schiller muove ancora nelle Lettere.

Schiller: la totalità interrotta - Le leggi di Mosè, Licurgo e Solone


La legge di Mosè

L’interesse che guida Die Sendung Moses (1790) è lo studio dell’attività legislatrice di Mosè, il quale avrebbe ricavato dai misteri dei sacerdoti egiziani quella dottrina dell’unicità di Dio che, adeguata alla primitiva mentalità del popolo ebraico, egli pose a fondamento della legge. Il centro del saggio non è la figura religiosa di Mosè, ma il significato politico della sua dottrina. In piena corrispondenza con lo spirito illuministico, si dà della religione un’interpretazione razionalistica, distinguendo tra un nocciolo centrale vero e compatibile con la ragione e il modo proprio di ogni religione positiva di rendere sensibile e di annunciare alle menti questo contenuto. Né particolarmente originale è il riconoscimento della funzione politica della religione, attorno alla quale un popolo può riunificarsi e combattere per la propria liberazione come avvenne appunto per gli ebrei sottomessi dagli egiziani. Due sono le idee realmente nuove qui contenute. In primo luogo il fatto che Schiller attribuisca a Mosè l’intento di dare agli ebrei non solo una costituzione giusta, ma che li renda realmente e durevolmente felici; in secondo luogo la preoccupazione di riconoscere un nocciolo di verità nella legge mosaica perché solo una costituzione che si fondi sulla verità può essere ripresa e proseguita da un futuro riformatore (NA 17, 396-397). Ritornano in queste idee la già notata accentuazione del tema della felicità come ultimo obiettivo politico, e la convinzione che per costruire una Universalgeschichte occorra trovare un filo rettilineo di congiunzione tra passato e presente. Solo l’esistenza di una verità, per quanto espressa in una forma adatta a popoli primitivi, può consentire la trasmissione di una conquista storica. Illuministicamente tra passato e presente non compaiono cesure.

Le leggi di Licurgo e Solone a confronto

Al tema della legge è dedicata anche Die Gesetzgebung des Lykurgus und Solon(1790). Lo scritto è dedicato alla trattazione delle legislazioni di Licurgo e di Solone, viste nei loro aspetti di opposizione e considerate l’una, quella spartana, modello e tipo delle costituzioni che tutto sottomettono allo stato e l’altra, quella ateniese, modello e tipo di costituzione democratica. Proprio quest’indagine per opposizioni impone allo studio una andamento piuttosto rigido, che fa sì che esso si configuri, più che come un’indagine storica, come una tipizzazione di modelli ideali. Oltre all’ovvia attenzione per la funzione politica della legge, Schiller è interessato a due temi: la funzione etica della legge e il rapporto tra legge e sviluppo umano e culturale del cittadino.
Relativamente al tema etico, Schiller ritiene che alla legge si debba attribuire solo una funzione strumentale rispetto alla virtù. Quella può porre le premesse per questa, ma non può costringere a essa, perché il valore cogente della legge contrasta con la libertà del volere che è presupposta dall’agire morale: "la più nobile prerogativa della natura umana è di determinare se stessa e di compiere il bene in vista del bene"(NA 17, 438). L’errore della legislazione di Licurgo fu quello di sostituire alla virtù la legge, facendo di un mezzo un fine, ma tale errore caratterizzò, seppure in altra forma, l’intera legislazione antica, che caricò sempre la legge di un significato etico. Senza per ciò cadere nell’eccessiva neutralità che contraddistingue la legislazione moderna, osserva Schiller, bisogna riconoscere consapevolmente i limiti che sono imposti alla legge. Quando essi vengono superati, come nel caso di Licurgo, ci si avvia verso forme dispotiche.
Dal punto di vista del rapporto tra legge e sviluppo del cittadino, Schiller riconosce la funzione di stimolo (o di freno) che una costituzione svolge, e perciò la sottomette a un criterio fondamentale: se compito della legge non è solo quello di creare un buon cittadino, ma di rendere possibile l’uomo, essa allora deve mirare a promuovere tutte le facoltà dell’uomo. L’uomo non può essere sacrificato allo stato, servendogli da mezzo, ma è lo stato che deve servire l’uomo (NA 17, 440). Ciò non fece la legislazione spartana, che , promuovendo solo la virtù militare, si vide privata di quegli artisti, di quei poeti e di quei saggi, che invece circondarono il legislatore ateniese, chiamandolo, grati "padre e creatore" (NA 17, 441). Attorno alla libertà si dispiegano tutte le facoltà dello spirito, mentre di fronte alla spaventosa servitù imposta dalla tirannia ogni grazia e ogni sapere vengono meno.
Il motivo che rende delicata e difficile l’opera del legislatore e che spiega per quale ragione essa rechi con sé tanti problemi e così strette connessioni con i temi etici e antropologici è icasticamente espresso da Schiller: "solo il legislatore tratta una materia che oppone una resistenza propria: la libertà umana"(NA 17, 426). Quanto qui si dice della legge vale più in generale per ogni agire politico o, più ampiamente ancora, per ogni agire storico. Incidere sulla storia significa avere a che fare con la libertà umana. Ciò impone un duplice limite: per un verso vieta che la legge o l’istituzione politica si sostituiscano alla libertà umana, facendosi norma etica e negandone il primato, per un altro richiede che a questa libertà esse impongano tuttavia limiti e freni. Il riferimento al primato dell’etica evidenzia un limite ideale e immutabile, il riferimento al conflitto tra l’opera del legislatore e la libertà umana indica viceversa un condizionamento storico e variabile. La resistenza che gli uomini oppongono alla legge è infatti relativa alle condizioni storiche e ambientali, e muta con esse. Viene formulato così un duplice criterio di giudizio: l’uno fornito di un’universalità che trascende i tempi, l’altro viceversa storicamente connotato. In base a quest’ultimo Schiller è condotto a domandarsi se una determinata costituzione sia adatta a un popolo o no. Non appena ci si mette in questa direzione ci si accorge però che il problema si modifica sensibilmente. Schiller, che pure era partito dalla descrizione di un paese come premessa esplicativa del sorgere di una determinata costituzione, volta precisamente a porre freno alle libertà anarchiche, si avvede che la legge, più ancora che regolare una libertà che oppone resistenza, "la tratta", la "modella": "Il carattere di un intero popolo è la più fedele riproduzione delle sue leggi", secondo un assunto che ricorda Montesquieu. In altre parole genera condizioni tali che modificano, dandole una direzione piuttosto che un’altra, la libertà dell’uomo. Ma proprio a causa di questa tendenza della legge a non regolare solamente i conflitti esistenti in una determinata società, ma a indirizzare la società in questa o in quella direzione e corrispondentemente a inibire altri sbocchi, diviene urgente che, a tutela di un libero sviluppo dell’umanità, si abbia continuamente coscienza della condizionatezza storica della legge. Essa non solo deve dunque essere subordinata alla morale (prima norma), ma deve altresì riconoscere che la sua validità è limitata nel tempo (seconda norma). Ciò non facendo Licurgo ha aggiunto un ulteriore errore alla sua legislazione e ne ha confermato, con la pretesa validità perenne, il carattere assolutistico. Solone viceversa, che si riprometteva una durata limitata della sua legislazione, fu più rispettoso di questa norma, e proprio per ciò vide riprese e mantenute in vigore, anche nella mutata situazione politica introdotta da Pisistrato e dai suoi successori, numerose sue leggi. Sulla scorta di questi principi è facile ricostruire l’intero giudizio che Schiller formula sulle due costituzioni prese in esame. La costituzione spartana viene radicalmente condannata, anche se, per obiettività storica, se ne riconosce la efficacia contingente. Si può dire che essa ha adempiuto almeno al compito di rispondere a certe esigenze immediate e su queste ha saputo costruire se non una civiltà certo una potenza. La costituzione ateniese viceversa viene elogiata per il proprio spirito democratico e per la propria moderazione, anche se non si manca di farne osservare i pericoli nascosti. La storia, il cui compito non è di tessere elogi, non può tacere che in ogni costituzione democratica è contenuto il pericolo dell’anarchia e che l’assemblearismo politico genera, almeno potenzialmente, individui inclinati alla ricerca dell’applauso e della gloria più che della verità, e curiosi di novità più che di norme sagge. La libertà, sfrenandosi, si getta da sé in nuove catene e non obbedendo a una guida si sottopone a nuove signorie. Ai saggi succedono così i sofisti e il tempo del disordine che sopravverrà al termine della vita di Solone vi è già annunciato.

Dracone:la legge fondata sulla paura

Un cenno merita il breve intermezzo che Schiller dedica a Dracone, nei cui confronti esprime un giudizio assai duro:" un uomo senza sentimenti umani, che non credeva la natura umana capace di alcunché di bene, che vedeva ogni azione solo attraverso lo specchio opaco della sua anima cupa e era senza alcuna indulgenza per le debolezze dell’umanità; un cattivo filosofo e un ancor peggiore conoscitore degli uomini, di cuore duro, limitato nell’intelligenza e inflessibile nei suoi pregiudizi"(NA 17, 429). Il principio fondamentale che permeava l’intera sua legge era la paura, perché solo per mezzo di essa confidava di ottenere quanto veniva comandato. Ma un progetto costituito su tali falsi presupposti, per Schiller non può che fallire.

Schiller: la totalità interrotta - Etwas über die erste Menschengesellschaft


Il contenuto del Saggio

La prima condizione dell’uomo è segnata dalla felicità e dalla compiutezza. La provvidenza, mirabilmente guidandolo attraverso l’istinto, aveva donato all’uomo uno stato di beatitudine, propiziato dall’intera creazione intorno a lui, che rendeva l’uomo "come una pianta o un animale", compiuto: "dolce e sereno fu dunque l’inizio dell’uomo, e tale doveva essere, se l’uomo doveva fortificarsi per le lotte che lo attendevano"(NA 17, 398). Ma un’altra felicità, di cui egli stesso avrebbe dovuto essere artefice, lo spingeva a uscire dal "paradiso dell’incoscienza e della servitù" per un nuovo "paradiso della conoscenza e della libertà"(NA 17, 399). Il peccato originale, come uscita dall’istinto e primo inizio della ragione e della moralità, può essere senza alcun dubbio chiamato "l’avvenimento più grande e più felice nella storia dell’umanità"(NA 17,399). Si tratta certo di una caduta, perché la beatitudine innocente del primo paradiso è perduta per sempre, così come la perfetta appartenenza alla natura, ma si tratta nel contempo dell’elevamento dell’uomo a essere morale. Il prezzo di ciò è la condizione di lotta e di conflitto che accompagna l’uomo, una lotta "lunga, pesante e che non è ancora oggi venuta meno"(NA 17, 401). Ma è grazie a questa lotta che si forgiano la ragione e la moralità dell’uomo.
All’interno della vita familiare si realizzano alcune delle esperienze tra le più fondamentali dell’uomo. Quella dell’educazione anzitutto, che è in primo luogo trasmissione. Per ciò il primo uomo generato da una coppia umana ha rispetto a questa un vantaggio enorme: "essere allevato da uomini" (NA 17, 401). La seconda fondamentale esperienza è quella dell’amore: dopo l’attrazione che ha legato uomo e donna, nascono altri generi di amore: quello paterno, quello coniugale che rinsalda nella comune dedizione ai figli il rapporto tra due esseri, quello fraterno che si instaura tra i fanciulli. La terza grande esperienza infine è il frutto di questa umanità che cresce. Finora gli uomini non avevano vissuto che nel presente o nel passato, ma dal momento in cui i figli cominciano a crescere e ogni giorno reca loro lo sviluppo di nuove facoltà, anche il futuro si risveglia con le sue promesse di gioia, con l’attenzione al nuovo e il sentimento della speranza.
A partire da queste comuni e originarie esperienze, vengono quindi a costituirsi differenti modi di vita. Contadini e pastori rappresentano le prime differenziazioni sociali di un’umanità che alla coltivazione dei campi e all’allevamento degli animali era stata condotta a imitazione della natura e a soddisfacimento dei propri bisogni primari. Ma la diversa condizione di vita degli uni e degli altri genera nel contadino, sottoposto a un più duro lavoro, l’invidia per il più felice stato del fratello. E’ il primo conflitto con un uomo e esso culmina, come il testo sacro narra in riferimento a Abele, con un assassinio. Da questo cupo inizio e dal disordine stesso regnante nell’organizzazione familiare, ancora strutturata poligamicamente, nasce l’esigenza di un ordine sociale. La consuetudine e la legge devono porre rimedio al disordine; è il disordine stesso a esigerle.
Il matrimonio viene codificato e con esso si istituisce un ordinamento patriarcale. Ma le naturali differenze tra gli uomini e le non identiche condizioni in cui ciascuno è costretto a svolgere il proprio lavoro generano disuguaglianze, e il povero e il debole vengono distinti dal ricco e dal forte.
Con la ricchezza si affaccia anche raffinatezza sempre maggiore, foriera di nuovi vizi e di nuovi conflitti. Le figlie dei servi divengono oggetto delle attenzioni dei padroni e dai loro rapporti nascono figli illegittimi che "ereditarono l’orgoglio del padre, ma non i suoi beni". Essi, "che non appartenevano a nessuno e cui niente apparteneva", incominciano a girare da soli, vivendo di prede. "La fame ne fece dei briganti, il successo del brigantaggio degli avventurieri, e infine perfino degli eroi"(NA 17, 410). Da uno di questi, sazio e potente, venne la prima città stabile. Il disordine ancora una volta portò all’ordine e alla fondazione del primo Stato. Questo si istituì intorno all’uomo più potente che seppe, valendosi della propria capacità e della propria forza, fare propri i vantaggi della lotta contro gli animali selvatici, che era condizione indispensabile per rendere possibile l’insediamento umano. Il fatto che egli fosse in grado di dare protezione fece sì che egli ricevesse, dapprima spontaneamente e poi sotto la minaccia della paura, donativi e privilegi, fino al punto che alla sua potenza non mancò altro che il pubblico e esplicito riconoscimento. Egli divenne allora re e attorno a questo usurpatore si costruì la prima società politica.

Significato e valore del Saggio

Con questa considerazione si chiude il saggio schilleriano. La storia vi appare dominata dal conflitto e dall’intrigo. Ma, come in Kant, un’immanente eterogenesi dei fini assicura il progresso, per quanto faticoso e lento, della civiltà. La compresenza, non esente da tensione, di questi due principi permea non solo l’opera storica, ma anche l’opera poetica di Schiller. E è a causa di essa probabilmente che Hegel vide nel Wallerstein non il tragico, ma l’orribile, il luogo della vittoria della morte sulla vita. La storia è riguardata, senza timore, in tutte le sue nefandezze; e, ciò nonostante, un progredire vi è figurato, di cui garante non è una dialettica immanente o una trascendente provvidenza, ma i risultati conseguiti nel presente. Ripercorrendone le tracce nel passato, si ha ragione di mettere in luce il bene che da tanto male è venuto e di attendere un futuro anche più giusto. Si tratta di principi illuministici, di un illuminismo disincantato e, insieme, qui, ancora fiducioso. Essi, visti a tutto tondo nella costruzione del Wallerstein, dovettero fare paura a Hegel, che non per nulla cercò di garantire in altro modo il progredire della storia. Sono, ancora, principi kantiani, ma spuntati di quel rigore che compare nel filosofo di Königsberg. Lì risolutamente è detto che il progresso della specie e il progresso del singolo divergono, avvenendo l’uno a spese dell’altro. L’eredità di Rousseau, discusso nelle Congetture, si fa in ciò avvertire. Kant riveste dello stesso ambivalente giudizio il peccato originale, che fu "moralmente una caduta e fisicamente una pena" e "per l’individuo una perdita", ma che "fu un guadagno per la natura, la quale non ha di mira che la specie"(Kant, W., 6, 100). Non così Schiller. Se in lui si accorcia la forbice che Kant istituisce tra individuo e specie e se corrispondentemente perde di drammaticità la tensione che vi si instaura, si accentua invece l’ottimismo circa la destinazione dell’uomo. Egli non è chiamato solo alla moralità, ma alla beatitudine (Gluckseligkeit); e se felice è lo stato di innocenza del paradiso originario, non meno felice, o ancora di più, è quell’atto, il peccato originale, che è premessa di quella felicità di cui l’uomo deve farsi artefice. Sia la condizione storica dell’uomo dopo il peccato che lo stato dell’Eden appaiono in questa prospettiva più armonicamente riguardate, come promessa di felicità l’una e attuazione di quella l’altro. Diviene perciò possibile per Schiller guardare indietro a quella primitiva età dell’oro non come a un’illusione elusiva, ma come a una sorta di riserva di felicità a cui tutta l’umanità può attingere nel procedere storico.
E se Kant intende la scoperta del futuro, pur necessaria all’uomo per perseguire la sua ultima destinazione, come "una fonte inesauribile di inquietudini e di preoccupazioni a causa dell’incertezza di questo avvenire, da cui gli animali vanno esenti", Schiller connette il senso del futuro con la promessa gioiosa dei bambini che crescono e premette alla descrizione della società e dei suoi conflitti una fenomenologia dell’amore umano, in nome della quale può infine concludere: "ora è scomparso il pericolo che gli uomini ricadano a imitare gli animali" (NA 17, 403)

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